Finalmente la lunga attesa è finita. E’ dalla stesura del calendario moto-turistico, fatta in quel mese di gennaio che sembra già appartenere ad altre epoche, che il fascino del Trentino turba il sonno dei motociclisti desiderosi di avventura. Sebbene non sia una novità per coloro i quali amano le belle strade immerse in panorami da mille e una notte, c’è una parte della regione che ci separa dai vicini austriaci che ancora merita di essere indagata. Parliamo di quella parte del Trentino più morbida, meno ostile delle zone dolomitiche dove l’arco descritto dalle montagne che si stagliano alte sembrano denti spezzati nella bocca di un gigante.
Più a sud, vicino ai luoghi in cui si parlano i dialetti lombardo e veneto, c’è una terra verde, lussureggiante, ricoperta di vitigni e di pomacee che regalano le loro preziose mele, oziosa nel suo morbido sali e scendi tra le colline e le valli. In questi territori ci si muove al ritmo dettato dalle curve mansuete, oscillando flemmatici come una barca lontano dalla spiaggia che galleggia su di un mare verde, dove l’odore salmastro lascia il posto a quello delle conifere e dell’uva matura.
E’ una gita densa di appuntamenti quella che ci vede partire da Somma Lombardo alle 7.15 di sabato 18 giugno. Visiteremo parchi naturali e luoghi in cui l’uomo trasforma ciò che la natura produce cercando di procurare il minor impatto ambientale possibile. Saliremo lungo percorsi sacri, ascendendo verso luoghi di eremitaggio, e condivideremo momenti all’insegna del vizio.
Tutto questo dopo che saliamo in sella e ci dirigiamo verso l’autostrada dei Laghi, in direzione di Milano, lasciando alle nostre spalle un cielo cupo e minaccioso e muovendoci verso est, dove l’orizzonte sembra essere meno severo anche se non del tutto assolato. Un lungo convoglio di moto con a bordo più di due dozzine di persone si muove rapido e compatto, grazie alla pochezza del traffico della mattina, e in pochi minuti giunge all’autogrill Villoresi Ovest dove altri amici aspettano di vedere il polverone sollevato dalla cavalleria per infilare il casco ed unirsi al gruppo. Prima di Milano rivolgiamo i nostri avantreni verso Venezia, immettendoci sulla A4 dove lungo il tratto urbano che si conclude alla barriera di Agrate Brianza incontriamo un numero maggiore di autoveicoli. Superato il casello mettiamo una croce sul primo dei centoottanta chilometri che ancora ci separano da Rovereto, provincia di Trento. Si procede in gruppo, granitici e senza intoppi, fino a Peschiera del Garda. Qui abbandoniamo l’autostrada per risalire i primi paesi turistici della sponda orientale del lago di Garda, Lazzise e Bardolino, lungo la SR450 da dove poi, giunti ad Affi, accediamo a quel lungo nastro d’asfalto che punta verso il Brennero, salutando le acque del fiume Adige che fuggono verso il Polesine ed il mare Adriatico.
Alle 10.00 siamo tutti in piega sul raccordo che porta al casello di Rovereto, da dove dopo tre chilometri giungiamo a Nogaredo, in perfetta osservanza della tabella di marcia. Parcheggiamo le moto ordinatamente lungo un lato del parcheggio della distilleria Marzadro, rinomata casa produttrice di pregiate grappe, ben nota anche al di fuori dell’italico stivale, e sfiliamo caschi e giacche sotto ad un cielo sgombro dalla minaccia di pioggia che si percepiva un’ora prima nel bresciano: i maniaci delle previsioni meteorologiche paventavano un viaggio sotto l’acqua, ma la buona sorte ci ha preservato dalle precipitazioni, chiedendoci in cambio di sopportare l’alto tasso di umidità che affanna il respiro.
La struttura che ospita la distilleria non è quella originale che nel1949 ha visto nascere l’azienda; tre generazioni dopo la fondazione la famiglia Marzadro ha saputo mantenere intatte le tradizioni produttive adattandole sapientemente alle moderne tecnologie produttive, e realizzando una struttura a basso impatto ambientale che, ad esempio, riutilizza il calore prodotto e vede i tetti degli edifici ricoperti da giardini composti con licheni e piante grasse che assicurano un ideale isolamento termico e che mimetizzano gli impianti nei vigneti circostanti. Grazie ad una descrizione dettagliata e appassionata dei nostri ospiti percorriamo l’intero processo produttivo che parte dalla raccolta della vinacce fresche ancora pregne di mosto, acquisite da vitigni trentini selezionati, prosegue con la distillazione a bagnomaria nei moderni alambicchi in rame, passa per i rigorosi controlli di qualità fino al riposo nelle botti, diverse per tipologia di legno e per numero anni di utilizzo, che conferiscono al distillato sfumature diverse percepibili al momento della degustazione. Saranno poi i maestri miscelatori a ricercare le giuste proporzioni che andranno a comporre le celebri grappe Marzadro: Diciotto Lune, Trentina, Marzadro 43, Still d’Or sono solo alcuni nomi che faranno drizzare le papille gustative agli amanti del genere.
Dopo circa un’ora di visita, terminata all’interno dell’enorme cantina che accoglie decine e decine di botti, dove l’aria è così carica di aromi alcoolici che ci si inebria semplicemente respirando, torniamo nella hall dove possiamo degustare grappe e liquori, accompagnandoli con formaggi e salumi tipici del trentino e con l’immancabile speck. La degustazione ci dà la possibilità di fare shopping ad alta gradazione e ci concede un fugace momento di relax: è solo mezzogiorno, e nel pomeriggio ci attendono momenti di vera fatica.
Salutati i nostri ospiti e scattata l’immancabile foto di gruppo a sigillo della visita, rimontiamo in sella e lasciamo Nogaredo da cui ci spostiamo per una decina di chilometri, entrando in Rovereto e salendo sul Colle Miravalle dove è sita la Campana della Pace, o anche dei Caduti. Per poterla ammirare si affrontano prima gli spazi della Fondazione Opera Campana dei Caduti dove sono raccolte centinaia di foto storiche risalenti agli anni dell’immediato dopoguerra, cioè successivi alla prima guerra mondiale, che narrano la storia di Maria Dolens, l’enorme campana di oltre ventidue tonnellate, alta e larga più di tre metri, la quarta più grande al mondo tra le campane che suonano a distesa. Fu realizzata a Trento nel 1924 fondendo il bronzo dei cannoni delle 19 nazioni che si affrontarono tra il 1914 ed il 1918, e rifusa quindici anni dopo per cambiarne la nota. Ogni sera, alle 21.30, i suoi cento rintocchi fanno da monito al mondo ricordando gli orrori della guerra, proponendosi come simbolo di pace planetaria grazie alle ottantacinque bandiere che delimitano il percorso che porta dal museo all’estremità del colle. Al suo cospetto non si può fare altro che fermarsi, accomodarsi sul prato che la circonda e riflettere sulle sue proporzioni e sulle proporzioni del disastro bellico. Ritornando verso l’ingresso dello spazio espositivo si può osservare una raccolta di presepi allestiti con materiali bellici raccolti durante le più recenti guerre: Somalia, Balcani, Vietnam, Cambogia, Afghanistan, Iraq, Israele e purtroppo molte altre. Un modo forte per dire no a tutti i conflitti.
E’ ora di rimettersi in marcia: la prossima meta è Segonzano, il paese che vide la prima sconfitta dell’armata napoleonica nel 1796 operata dall’impero austro-ungarico, così come testimoniato dalle rovine del castello, in parte ristrutturato pochi anni fa. Ma il nostro interesse è rivolto al parco degli Omèni de Segonzan, imponenti piramidi naturali composte da alti cumuli terrosi e sovrastate da un capitello di roccia, frutto dell’opera di erosione esercitata dall’acqua in un numero inenarrabile di anni.
Attraversiamo quindi la Vallagarina, terra di forti e di castelli, calcata da dinosauri le cui impronte impresse nel terreno sono ancora oggi visibili a nord della valle, terra di caccia alle streghe, come quella che a metà del 1600 si concluse con la decapitazione ed il rogo di diverse donne, secondo le cronache dei tempi ree confesse di praticare la stregoneria. L’Adige è ancora nostro compagno di viaggio lungo le curve che percorrono l’omonima valle e che sfociano nella Valle di Cembra. Chilometro dopo chilometro mentre la fame inizia a occupare i pensieri, anche le nuvole occupano il cielo, scalzando l’azzurro dalle cime degli alberi e dei colli.
Fermiamo i motori all’ingresso del parco delle piramidi, e con nostro sommo piacere individuiamo subito un chiosco immerso nel verde che serve panini ben imbottiti e fresca birra: non serve discutere, occupiamo subito tre tavolate e diligentemente ci accodiamo per procurarci il pranzo spendendo pochi euro. Finalmente le parole lasciano il posto ai sapori, e quando il rancio termina basta indagare lo sguardo dei commensali per capire che non tutti affronteranno la salita verso le piramidi. Si distinguono tre gruppi: i riottosi, che decidono subitaneamente di rimanere incollati alle panche a godersi magari un’altra birra e ad alleggerire il bagaglio fumando qualche sigaretta; poi gli incerti, che eroicamente iniziano il percorso di venti minuti, almeno stando ai cartelli segnaletici, ma che dopo le prime pendenze girano sui tacchi e fuggono verso il chiosco; infine i testardi, che senza tentennamenti dovuti alla salita scoscesa, agli scalini alti quasi trenta centimetri che indeboliscono rapidamente i polpacci, all’afa che riempie d’acqua i polmoni, e alle calzature inadatte costituite dagli stivali in pelle o goretex affrontano un mondo capovolto dove all’inferno si sale invece che scendere. La segnaletica sembra ideata da un burlone e si beffa di noi ad ogni cambio di direzione: ti arrampichi come uno stambecco per dieci minuti ed il cartello successivo dice che all’arrivo mancano ancora lo stesso tempo che mancava dieci minuti prima. Poi, quando il caldo ti ha stillato anche l’ultima goccia di acqua dal corpo e i muscoli sono inerti come quelli dei quarti di vitello appesi in macelleria, ti affacci finalmente sugli omèni, sulle piramidi accese dal rosso della terra trentina, simili alle torri di un enorme castello di sabbia creato da un bimbo gigante. Per tutta la loro altezza rivive il fuoco che incendia le cime dolomitiche al tramonto, e osservando la roccia che fa da cappello alle colonne cerchi di avvistare Wile E. Coyote, nascosto dietro di essa e pronto a spingerla per farla rotolare addosso a Beep Beep. E se davvero lo vedi significa che è ora di tornare indietro alla ricerca di fresco ossigeno, calcando quella che ora diventa una ripida discesa che ti fa rimpiangere di non avere una forcella in ogni gamba, così da ammortizzare il carico sulle ginocchia.
Quando il gruppo si ricompone, le facce serene di coloro i quali se ne sono stati comodi a bivaccare si alternano con quelle degli altri, avvinazzate dalla fatica, per cui indugiamo ancora una mezzoretta visto che le calorie accantonate con il pranzo devono essere rimpiazzate almeno in parte. L’orologio dice che sono già le quattro del pomeriggio, per cui il Presidente fa partire il conto alla rovescia per quei due minuti che servono a raggiungere le moto e rivestirsi. Coperti noi, coperto il cielo: ormai è questione di tempo e scenderanno le prime gocce d’acqua.
Dopo un’oretta, attraversata parte della Val di Cembra, giungiamo in località Faedo dove dovremo dividerci in due comitive: una alloggerà all’agriturismo Maso Nello, l’altra all’agriturismo Ai Molini. Le due strutture distano circa quattro chilometri, e sono situate sul fianco di una collina ricoperta di vigneti dove si insinua la strada stretta e tortuosa, ad una altitudine di 591 metri: dato curioso, visto che il comune conta 586 anime. Arriviamo al primo agriturismo in perfetto orario, qualche minuto dopo le 17.00. E puntuale è anche la pioggia che inizia a cadere e a far cadere la temperatura dell’aria: una vera manna. Togliamo i bagagli dalle motociclette e ci sistemiamo nelle camere: la doccia ed il conseguente riposino sul nuovo letto è un toccasana, non perché siamo particolarmente stanchi, ma perché in questo modo la calura abbandona il nostro corpo e riusciamo a racimolare un po’ di energia in vista della serata, che come da buona tradizione sarà impegnativa dal punto di vista gastronomico, enotecnico e goliardico.
La cena è fissata per le 19.30 ai Molini, per cui il gruppo del Maso Nello parte di buona lena alle 18.30 dopo aver deciso di lasciare le moto al loro riposo metallico e di percorrere a piedi i quattro chilometri che scendono verso il luogo prefissato. Dopo poche decine di metri riecco la pioggia, in agguato dietro alla prima curva: ormai è deciso, non si torna indietro e anche se senza ombrelli si va avanti fino a sedersi a tavola. Per fortuna alla seconda curva qualcuno scorge il cartello che indica un sentiero: una rapida consultazione e ci avventuriamo per la strada sconosciuta che scende ripida come uno scivolo verso valle, costeggiata sempre dai vigneti. Lottiamo contro la forza di gravità che vorrebbe farci rotolare giù come palloni impazziti quand’ecco che le nuvole diventano enormi gavettoni e riversano a terra tutta l’acqua di questo mondo. Dopo pochi passi siamo completamente zuppi, e quella discesa sembra non avere fine. Poi uno sguardo verso il campanile del paese, nostro punto di riferimento, ci fa capire che siamo dalla parte sbagliata della valle. Altro che fortuna, lo sconforto fa letteralmente cadere le braccia e ci costringe a tornare sui nostri passi, obbligando ad arrampicarci come alpinisti su quella che ora è una salita impossibile, uno scherzo della natura. Ad ogni passo i nostri abiti diventano più scuri, più pesanti e appiccicosi, e dalle scarpe da ginnastica esce una fontanella d’acqua ogni volta che il piede poggia a terra. Tornati finalmente sulla strada principale camminiamo lungo i tornanti che riportano verso Faedo, e un po’ telefonando agli amici che ci aspettano all’agriturismo, un po’ chiedendo informazioni ai pochi passanti, giungiamo alle 19.15 al Maso Nello dove gli altri soci hanno già fatto razzia dell’aperitivo. Non ci resta che asciugarci nel limite del possibile, ma anche qui la sfortuna ci strizza l’occhio visto che il tentativo di eliminare l’acqua con l’aria calda di un phon fa perfino saltare l’energia elettrica. Dopo diversi tentativi spesi per cercare l’interruttore colpevole del black-out non resta che arrendersi e accomodarsi nella sala da pranzo bagnati come cozze sugli scogli.
Subito vengono servite le diverse portate che tra assaggi ed antipasti propongono alcuni tipici piatti trentini: polenta, canederli, speck, carne salada e una curiosa polpetta di patate, piatto forte della casa, molto gustosa e servita in quantità esagerata. Quando è il momento dei dolci si possono osservare sulla tavola diverse bottiglie di vino bianco e rosso pietosamente vuote: per capire dove sia finito il vino che contenevano basta guardare verso un lato della lunga tavolata, dove un piccolo gruppo di amici intona a modo suo le classiche canzoni da etilometro: Battisti, Dalla, Baglioni, Cocciante e Mina la fanno da padroni, e l’allegro festival contagia anche qualche ospite che dal proprio tavolo si unisce al coro. Le grappe poi danno il colpo del ko e assieme al livello di alcool sale anche, inevitabilmente, il livello dell’allegria.
E’ quasi mezzanotte quando il gruppo che deve tornare ai Molini si accorge che fuori dalle mura la pioggia continua incessante: la vista delle gocce che cadono velocemente ci ricorda che siamo vestiti con abiti bagnati, particolare dimenticato nella frenesia dell’abbuffata. Il proprietario dell’agriturismo, mosso forse da compassione, ci risparmia la nuova doccia indesiderata prodigandosi con tre viaggi con cui ci accompagna, in auto, al luogo del riposo. Qui il gruppo a bagnomaria viene velocemente rapito dal sonno, mentre gli altri amici ancora continuano la festa pur spostandosi nelle camere: ci racconteranno le loro goliardate l’indomani, testimoniate da foto che, in condizioni normali, tutti vorrebbero tenere ben nascoste.
La domenica mattina ci saluta con il sole che ha fatto evaporare le nuvole del giorno precedente, e l’aria fresca, l’azzurro limpido ed il silenzio che riempie la natura prima del suo risveglio invogliano a recarsi di buon ora nella sala delle colazioni. L’appuntamento con il resto del gruppo è previsto per le 9.30 ma alle 8.00 praticamente tutte le moto sono già pronte per ripartire, caricate con bauletti e valigie ed asciugate grazie ad una salvietta presa in prestito dalle camere. Un po’ assonnati ci gustiamo le marmellate fatte in casa, così come il pane, le torte e perfino salumi e formaggi prodotti dall’azienda che ci ospita. A stomaco ben pieno e dopo una lesta occhiata alle camere, giusto per essere sicuri di non dimenticarsi nulla, accendiamo i motori e transitiamo lungo i pochi tornanti che ci portano all’agriturismo occupato dagli altri amici. Qualche minuto per raggrupparsi sulla strada e stabilire il percorso del rientro verso casa, e alle10.00 il plotone si incolonna lungo la discesa che a valle si congiunge con la SS43. Il piano prevede di dirigersi verso Cles e da qui seguire la SS42 che partendo dal lago di Santa Giustina attraversa la Val di Non e la Val d i Sole. Poi due tappe di montagna, entrambe di poco superiori ai1.800 metri di altitudine: il Passo del Tonale e quello del Mortirolo.
La SS43 inizia a San Michele all’Adige, dove girovaghiamo un po’ disordinati alla ricerca di un benzinaio aperto almeno come self-service; il punto di ritrovo è la rotonda che precede l’attraversamento dell’Adige, e da lì finalmente accediamo alla statale che prima di Mezzolombardo prende il nome di Via Tonale: buon segno, non ci siamo persi. Dopo circa trenta chilometri percorsi lungo la strada amena in compagnia del torrente Noce giungiamo alla punta sud del lago di Santa Giustina in località Dermulo, e qui viriamo verso nord-est e Sanzeno, da cui poi ci avventuriamo in uno stretto canyon che si inoltra nella zona boschiva del comune di Coredo, dove transitano anche grossi pullman turistici e che richiede quindi la giusta dose di prudenza nella guida. La via è cieca e termina nel parcheggio sottostante al santuario di San Romedio, eremo dedicato all’omonimo santo, posto sull’apice di uno sperone di roccia scosceso, costituito da cinque chiese collegate da centotrenta gradini, la prima delle quali risale addirittura all’anno 1.000 d.C. La leggenda vuole che il Santo abbia domato un orso che aveva sbranato il cavallo del Vescovo di Trento, rendendolo docile al punto da fungere egli stesso da cavallo. La salita verso l’eremo, che offre una vista spettacolare sulla Val di Non, non è di certo agevole e qualcuno arranca nuovamente così come il giorno prima nel parco di Segonzano; e come il sabato, anche oggi qualcuno opta per una comoda sosta all’ombra della vegetazione ed attende paziente il ritorno degli amici che, invece, hanno deciso di affrontare la notevole pendenza.
Lasciamo il parcheggio proprio quando iniziano ad affluire diversi pullman carichi di pellegrini, e dopo aver percorso a ritroso il canyon, giunti di nuovo sulla statale, mettiamo un po’ di pepe nei motori, pronti a macinare i circa sessanta chilometri che ci separano dal Passo del Tonale: ci spostiamo a ovest del già citato lago di Santa Giustina, toccando Cles, Bozzana, Caldes, Monclassico, Mezzana e infine Vermiglio, punto in cui la strada inizia a spingersi verso il cielo terso. La salita verso il Tonale è praticabile lungo una strada ampia e ben tenuta, dove il susseguirsi di tornanti e di curve che si avvitano verso l’alto invita ad osare, a lasciare libera quella parte della tua personalità che vuole trasgredire e ingaggiare una gara con te stesso. Aumentando il ritmo raggiungi però i mezzi che ti precedono, e se si tratta di automobili di dimensioni generose, o di camper, non ti resta altro che lasciare perdere l’acceleratore almeno fino al punto in cui la visuale e la ragione ti dicono che è il momento giusto per superare l’ostacolo con un guizzo, con un colpo di pistoni. Ai 1.883 metri del passo ci aspetta un vento teso che spazza quella che sembra una città deserta, presa in prestito da un film western: lungo la strada non si vede nessuno, e a parte un paio di bar tutti i negozi sono chiusi. Si incrociano pochi motociclisti, e fortunatamente non ci sono duelli da mezzogiorno di fuoco da affrontare: ci rintaniamo, dividendoci, negli unici due pub che ci possono fornire un panino da mettere sotto ai denti, per ritrovarci tutti un’ora e mezzo più tardi. Alcuni di noi decidono di sganciarsi dal gruppo per raggiungere Livigno e magari darsi allo shopping, ma la maggior parte della compagnia procede come da programma. Prima di salutarci ci raduniamo sotto al cartello che segna il punto esatto del passo per l’usuale foto di gruppo, e poi via, a testa bassa lungo la discesa che porta alla Valtellina, a Ponte di Legno, alla Val Camonica e Monno.
Da qui inizia la nuova cabrata che ci issa ai 1.852 metri del Mortirolo: questa volta ci troviamo in un ambiente più selvaggio, nervoso, in cui la strada segue forzatamente i fianchi tormentati della montagna, immersa nella natura lussureggiante che limita la larghezza della carreggiata. Si viaggia quindi con più circospezione rispetto al Tonale, e giunti sul falsopiano che precede la discesa sostiamo per regalarci un po’ di relax. Anche qui fa caldo ma di certo l’attraversamento della Valtellina sarà più cocente, per non parlare poi del clima rovente di Lecco e del comasco, per cui la sosta va ben oltre il previsto così da poter metter un po’ di fresco nelle tasche delle giacche tecniche.
La discesa verso la SS36 della Valtellina, o dello Stelvio che dir si voglia, è osteggiata da un paio di macchine a cui ci accodiamo poche centinaia di metri dopo la ripartenza, e che non ne vogliono sapere di far passare il millepiedi su due ruote che preme come lo spumante imbrigliato dal suo tappo. La strada è stretta e tortuosa, i tornanti in contropendenza hanno raggi di curvatura inverosimile, per cui non ci resta che armarci di pazienza e procedere incolonnati con la stessa flemma di una testuggine coi reumatismi. Finalmente atterriamo a Mazzo di Valtellina e ci posizioniamo ai bordi della statale per radunare tutti i soci, in attesa di coloro i quali sono discesi con ancora più pacatezza. Passano i minuti e risulta evidente che c’è qualcosa che non va come dovrebbe: all’appello mancano tre amici. Uno di questi ci raggiungerà dopo essersi reso conto di aver imboccato la SS38 nella direzione sbagliata, cioè verso Bormio, mentre Edoardo ed Aurelio arriveranno a passo lento poiché il secondo dei due ha avuto un piccolo incidente mentre affrontava la discesa: una frenata improvvisa, la strada con un po’ di brecciolino, e l’avantreno che si chiude con conseguente inevitabile scivolata. La moto presenta un po’ di danni: mancano infatti la pedivella del freno posteriore e la pedana destra del pilota, oltre ad altri guai minori che però la Moto Guzzi Breva assorbe senza tanti problemi. Proprio come Aurelio, che sebbene abbia una caviglia malconcia per via della moto che vi si è sdraiata sopra si rimette in sella dopo aver bevuto un po’ di acqua fresca, utile per stemperare l’arrabbiatura: il suo fisico capace di divorare pranzi da grande abbuffata riesce anche a digerire la botta.
Tirano, Teglio, Sondrio, Ardenno, Talamona e Morbegno sono l’aperitivo di quello che ci aspetterà a breve lungo la tratta lacustre Colico-Lecco: si respira già aria al gusto di tubo di scarico, e a Delebio le auto iniziano a essere la specie dominante. Poi è il turno delle tante gallerie che escludono il lago di Como dal campo visivo, in un continuo contrappunto tra l’assolato e abbagliante mondo esterno e i tetri tunnel dove i rumori rimbalzano, amplificati, tra le pareti. A Lecco poi il delirio: la superstrada è bloccata e le gallerie urbane sono una trappola gassosa e chiassosa; al caldo estivo si somma il calore prodotto dai tanti motori: l’aria irrespirabile e la temperatura opprimente ci costringono allo slalom tra i mezzi incolonnati, aggiungendo stress su stress. Immersi in questo caos ci perdiamo di vista: le moto più snelle e chi indovina il momento giusto per saltare la corsia riescono ad avanzare, mentre i più prudenti e chi cavalca un cavallo un po’ più grasso fatica a farsi largo e rimane imbottigliato nel traffico. La lucidità inizia a vacillare. Stanchi ed accalorati si arriva a Civate, paese posto tra il lago di Garlate e quello di Annone, dove un bivio permette di lasciare la Monza-Lecco per dirigersi verso Erba: in molti si dimenticano l’ordine del nostro Presidente e, anziché proseguire diritti fino ad Arosio e da lì raggiungere il birrificio di Lurago Marinone, uno sparuto gruppo di soci abbandona la statale dopo qualche attimo di indecisione. Ecco quindi che una manciata di persone si ritrovano, quasi per caso, alla prima gelateria che si affaccia sul lago di Pusiano, alla ricerca di un po’ di fresco che possa affrancare corpo e spirito. Altri invece fanno direttamente rotta verso la propria abitazione. I più attenti raggiungono invece il birrificio, ma ormai l’esercito è stato decimato.
Finisce così questo weekend tanto atteso: due giorni intensi, spremuti fino all’ultima goccia, che hanno dato tutto ciò che potevano dare e che vanno spegnendosi attraverso la provincia di Como e quella di Varese. E’ un peccato essersi lasciati alle spalle il Trentino e gli amici. Ma le montagne resteranno al loro posto ancora per molto tempo, per cui prima o poi, forse presto, potremo tornare ad ammirarle e a conquistare le loro vette in sella alla nostra moto. Anche gli amici saranno ancora al loro posto, e non c’è molto da aspettare per rivederli: li incontrerai dopo tre giorni, questa volta seduti attorno ad un tavolo, con una birra in mano, e con lo sguardo sereno e soddisfatto di chi sa scorgere la gioia anche dentro la fatica.