Sono le sei della sera e un gruppo di amici chiacchiera rilassato davanti ad un caffè, ad un tè fumante o ad un bicchiere di fresco vino bianco che nasconde le bollicine sotto ad un leggero velo di condensa. Un bicchiere che sembra circondato dalla nebbia. Fuori dal locale, silenziosa, la foschia inizia a calare il suo piovigginoso sipario su questa domenica d’autunno. E’ in questa atmosfera metropolitana che si chiude la gita che tradizionalmente consegna gli amici del Moto Club Golasecca al rigore dell’inverno: la gita nella nebbia.

Tutto inizia alle 8.30 della domenica mattina quando nel parcheggio antistante la gelateria Peccati di Gola di Somma Lombardo si allineano le prime moto: la partenza è fissata alle 9.00 ma per meglio affrontare la giornata, che promette una pungente frescura, è utile scaldarsi un po’ con il calore dell’amicizia. Nonostante qualcuno abbia lasciato la moto nel box per qualche acciacco del pilota o perché lei proprio di accendersi non ne voleva sapere, il fascino dell’inverno all’orizzonte richiama ventisette soci. Una ventina di cavalli di caldo acciaio inizia a spostarsi verso Sesto Calende, città che segna la punta meridionale del Lago Maggiore. Da qui e fino a Belgirate la nebbia avvolge moto, persone e strada, ed il mondo intero sparisce, immerso in un enorme bicchiere di latte. Il lago è una presenza percepita, non reale, perché le sue acque sono nascoste dalla bruma da cui raramente affiora qualche barca solitaria, abbandonata ai flutti fumosi. Ti viene da scommettere che lì dentro, da qualche parte, una malridotta nave fantasma si trascini silenziosa sullo specchio d’acqua, con il suo carico di oro, acquavite e pirati senza un occhio. E ti senti un po’ come Peter Pan che semina l’acerrimo rivale Capitan Uncino, solo che non volteggi come lui nell’aria, ma corri a cavallo di una motocicletta.

Un colpo di guanto alla visiera appannata cancella il velo di nebbia che la ricopre, e insieme a lei cancella le fantasie disneyane. Arrivando a Stresa la foschia si dirada e finalmente alla destra appare il Verbano da cui spuntano le Isole Borromee, più simili a miraggi che a vere terre emerse. La colonna di amici si snoda tra le curve delle insenature e punta verso Verbania ed il limite settentrionale del lago, che lasciamo per giungere a Mergozzo, paesino che si affaccia sull’omonimo bacino, meno esteso del Maggiore ma non per questo manchevole di fascino e poesia. Qui sostiamo per un caffè e per goderci il sole che è inaspettatamente caldo e ci aiuta a togliere l’umidità ed il freddo che irrigidiscono i muscoli: i volti iniziano a distendersi e le contratture lasciano spazio a gesti più ampi. Rigenerati dal calore rubato torniamo in sella e ci prepariamo ad affrontare la seconda metà del viaggio, quella che da Mergozzo ci porterà fino a Domobianca, un migliaio di metri sopra i tetti di Domodossola.

Il paesaggio è ora decisamente diverso, e metro dopo metro si presentano tutte le caratteristiche delle zone prossime alle montagne. I paesi sono più radi e cedono il posto alla campagna, le strade sono umide e più movimentate nel loro sinuoso incedere, gli alberi colorati con la tavolozza dell’autunno. C’è anche una mandria di mucche che pascola nel campo limitrofo, incurante del freddo e del nostro passaggio; tra loro ozia il mandriano, con la sua faccia arrossata come quella di un vacanziero in spiaggia fuori stagione. La statale ci porta da Vogogna fino a Crevoladossola e infine a Domodossola, alternando tratti in cui l’asfalto disegna decori in stile rococò con parti rettilinee su cui lasciamo correre liberi i nostri cavalli. Poi si inizia a salire. Il fondo è sorprendentemente pulito e asciutto, per cui si prende quota divertendoci tra le curve, pennellando traiettorie che sfumano dietro di noi come la condensa di un’aero che decolla. Nei tornanti si esce dalla sella e si chiede alla moto di inclinarsi di più, di portarsi verso terra, di farci respirare l’aria dell’adrenalina che ti fa dimenticare di colpo il freddo, i pensieri, la crisi e tutto quello che di brutto vivi quotidianamente.

Quando i tetti delle case diventano puntini sotto di noi troviamo il cartello che indica Lusentino, che per noi significa bandiera a scacchi: siamo arrivati a destinazione. Anche se è Novembre ci sfiliamo subito casco e guanti, e i bottoni vengono aperti velocemente perché il sole di mezzogiorno è più forte della brezza che vorrebbe farci rabbrividire. Ti cade l’occhio sull’amico con qualche anno in più sulle spalle e vedi che i suoi occhi guizzano agili e felini; a dispetto dell’età non esita nemmeno quando c’è da galoppare con la temperatura di un frigorifero, e statuario inforca il manubrio e conduce la sue due ruote fiero come il torero nell’arena. Se invecchiare porta a tutto questo, ben vengano gli anni dei capelli bianchi.

Dopo l’aperitivo servito all’aperto ci spostiamo all’interno del rifugio e occupiamo i tavoli. Non ci sono sedie vuote: ventisette persone dovevamo essere, e ventisette persone armeggiano con bicchieri e posate. Il cibo scompare dai piatti e riappare sotto forma di pancioni gonfi che i pantaloni non riescono a contenere: se qualcuno prova un certo timore nel vedere un motociclista bardato nella sua armatura invernale, aspetti di vedere come è buffo quando si aggira tra i tavoli con il bottone e la lampo slacciati.

Alle tre del pomeriggio il sole scompare dietro le cime delle montagne innevate, e insieme al chiarore si affievolisce anche il calore: mani invisibili hanno spento la luce e la caldaia del mondo. Nonostante il gonfiore provocato dalle libagioni, il torpore che ti prende quando hai bevuto un po’ di succo d’uva fermentato, ed il freddo che minaccia di avvolgerti come un vestito stretto e scomodo, decidiamo soddisfatti di partire non tanto per tornare verso casa, ma per fare una nuova pistonata in compagnia. Scendiamo quindi in scioltezza verso Domodossola e, dopo le curve che smuovono la sonnolenza e ti riportano in vita, accediamo alla SS36 del Sempione in direzione Milano fino a giungere a Gravellona Toce. Qui salutiamo le montagne, già piccole negli specchietti, e puntiamo verso il terzo lago della giornata: l’Orta. Anche qui le acque sono piatte e grigie, ma l’isola di San Giulio è ben visibile. Viene voglia di fermarsi qualche minuto ad ascoltare il silenzio di questi posti, ma ormai la cavalleria è lanciata all’assalto e serpeggia sulla strada che poi fugge dal lago e si dirige verso il Mottarone e l’Alto Vergante. I boschi che delimitano la carreggiata iniziano a perdere i loro caldi colori, ed il giallo e l’arancione sfumano verso una tonalità di blu e di grigio ben nota: il colore del buio.

Attraversata la diga di Porto della Torre si entra in un mondo avvolto dalla nebbia e dalla notte, con il Ticino gelido e fumante a dare un tocco esoterico al tutto. Strizzi gli occhi e scruti nell’oscurità: forse davvero c’era una nave pirata che si muoveva sulle acque del Lago Maggiore. E forse ti ha seguito fin qui. Un fremito risale lungo la schiena: hai i brividi ma per colpa del freddo, non perché ti sei lasciato suggestionare. Ormai sei a due passi da casa, ma decidi che è meglio passare ancora qualche minuto in compagnia dei tuoi amici, chiacchierando rilassato davanti ad un caffè, ad un tè fumante o ad un bicchiere di fresco vino bianco che nasconde le bollicine sotto ad un leggero velo di condensa. Un bicchiere che sembra circondato dalla nebbia.

 

Qui le immagini della giornata.